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Cassazione e lavoro: capo avvisato mezzo salvato! È straining se stressa il sottoposto

Il giro di vite contro gli abusi del capo sul posto di lavoro arriva dalla Corte di cassazione che con l’ordinanza n. 29101/2023 pubblicata il 19 ottobre 2023 dalla Sezione Lavoro ha chiarito che è impossibile non risarcire la violazione di valori costituzionali come dignità, identità personale e integrità psicofisica. Benché sia chiesto il mobbing, il giudice deve riconoscere la forma attenuata risarcendo lo straining se il capo stressa il sottoposto. Non possono rimanere senza protezione, infatti, valori come la dignità, l’identità personale e l’integrità psicofisica del lavoratore: sono tutelati dalla Costituzione. E dunque se il lavoratore cita in giudizio il datore chiedendo i danni da mobbing, ma nel corso della causa è esclusa la sola continuità delle vessazioni, il giudice deve comunque liquidare il risarcimento per la forma attenuata quando l’ambiente di lavoro risulta «stressogeno». Il giudice, d’altronde, deve considerare il contenuto sostanziale della pretesa fatta valere. Con questo provvedimento giurisdizionale i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso del lavoratore, che pure in secondo grado si è visto riconoscere oltre 15 mila euro a titolo di differenze retributive e quasi 4 mila per integrazione tfr. Sbaglia tuttavia la Corte d’appello quando accerta la dequalificazione ai danni del dipendente ma esclude il mobbing sul rilievo che mancherebbe la prova della condotta reiterata, mentre il lavoratore lamenta un totale e forzoso stato d’inattività, l’emarginazione, un trasferimento “punitivo” e perfino pressioni per fargli accettare la mobilità. Il tutto da parte della dirigente che, se ha modi spicci con tutti i sottoposti, adotta una particolare modalità di controllo nei confronti del danneggiato. E il punto sta proprio nel rapporto difficile con la “boss”. Ad avviso del Collegio di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “Trova ingresso la censura che denuncia il mancato riconoscimento dello straining, che come il mobbing trova origine nella violazione ex articolo 2087 Cc, per l’alterco con la dirigente che è costato addirittura un attacco ischemico al lavoratore. Con la consueta «prepotenza» – testimonia una vicina di scrivania – la responsabile pretende di sedersi alla postazione del sottoposto e nel controllargli il computer cancella alcuni file. «Io sono la capa, io comando e faccia quello che voglio», grida lei alle rimostranze di lui, alterandosi sempre di più: è lì che il malcapitato si sente male e viene portato via in ambulanza, tornando in servizio soltanto dopo molto tempo. Al di là della qualificazione della condotta come mobbing o straining, conta il fatto illecito commesso anche isolatamente che viola interessi del lavoratore protetti al massimo livello costituzionale; valori che non possono restare «senza una minima reazione» da parte dell’ordinamento. E ciò a prescindere da dolo o colpa del datore: la responsabilità è contrattuale e spetta all’azienda dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza. Lo straining, rileva Giovanni D’Agata è una forma attenuata di mobbing in quanto priva della continuità nelle vessazioni, ma se viene accertato che l’ambiente lavorativo è «stressogeno» la domanda di risarcimento deve comunque essere accolta, anche se non sussiste un vero e proprio disegno persecutorio da parte del datore. Il giudice, del resto, non deve fermarsi al tenore letterale delle domande.

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