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Covid-19, le polmoniti post covid non guariscono facilmente

A sostenerlo una nuova ricerca dei ricercatori dell’Asl di Lecce sulla polmonite interseziale che descrive i risultati clinici basati sulle caratteristiche radiologiche. Lo studio indica anche i risultati clinici basati sul modello dei parametri ematochimici e degli anticorpi IgG/IgM in pazienti ricoverati in ospedale. I risultati dello studio tutto leccese sono stati pubblicati sulla rivista scientifica PLOS ONE

La pandemia di COVID-19 ha provocato circa 165 milioni di infezioni e 3,4 milioni di morti in tutto il mondo in 15 mesi. La presentazione clinica più grave delle malattie COVID-19 è la polmonite interstiziale. L’ASL di Lecce, ha messo insieme una squadra per analizzare gli autoanticorpi antifosfolipidi IgG/IgM circolanti in pazienti con forma grave di COVID-19, che potrebbe esacerbare lo stato tromboinfiammatorio correlato alla gravità della malattia. Il team, composto dai dottori Domenico Maurizio Toraldo, Francesco Satriano, Rodolfo Rollo, Gabriella Verdastro, Giovanni Imbriani, Emanuele Rizzo, Alberto Argentero, Andrea Falco, Paolo Ambrosino, Alessandro Miani, Prisco Piscitelli, ha coinvolto 75 pazienti ricoverati nel Sud Italia a causa di infezione sintomatica da COVID-19 nei mesi di aprile e maggio 2021 che hanno richiesto ossigenoterapia prolungata, somministrata 24 ore su 24, insieme a trattamenti antinfiammatori e antivirali disponibili al momento dello studio. Di questi ospedalizzati, solo 28 sono guariti completamente dopo 3 mesi come documentato da Tomografia Computerizzata negativa (prima visita pneumologica di follow up). I restanti 47 pazienti hanno mostrato la persistenza di sequele radiologiche al mese 3 che erano significativamente associate a livelli più elevati di IL-6 misurati al momento del ricovero ospedaliero, vale a dire due volte rispetto ai soggetti che non presentavano alcuna alterazione radiologica al mese 3. Questi risultati suggeriscono che, tra i marcatori infiammatori, IL-6 potrebbe essere empiricamente proposto nella pratica medica come possibile predittore di esiti radiologici sfavorevoli a medio/lungo termine. Quest’ultimo dato deriva dall’utilizzo di un Modello Lineare Generalizzato (GLM) che considerava gli esami ematochimici di base come variabili dipendenti e l’esito clinico a 3 mesi (guarigione o sequele a lungo termine basate sull’evidenza radiologica) come variabile indipendente. I risultati sono coerenti con quelli di Herold et al, che hanno scoperto che i livelli di IL-6 predicono l’insufficienza respiratoria nei pazienti sintomatici ospedalizzati con COVID-19. Inoltre, alcuni autori hanno già proposto l’anti-IL-6 come bersaglio per il trattamento dei pazienti gravi con COVID-19. Il tema di ricercatori ha anche effettuato un’analisi descrittiva esplorativa sui nostri parametri ematochimici al momento del ricovero ospedaliero e hanno riscontrato che i risultati di un altro studio condotto da Kabak et al. sono stati confermati per tutti i parametri (neutrofili e leucociti erano al di sotto della conta media minima normale, e anche il rapporto neutrofili/linfociti era subottimale) ad eccezione di linfociti e piastrine; tuttavia non è stato possibile per noi ripetere il confronto con un gruppo di controllo effettuato nello studio di Kabak et al. Questi risultati dello studio mostrano che i pazienti COVID-19 con sintomi da moderati a gravi e diagnosi confermata radiologicamente di polmonite interstiziale presentano livelli elevati di IgG, che diminuiscono nei successivi 3-12 mesi. Tuttavia, è noto che oltre alla risposta anticorpale specifica, l’infezione da SARS-COV2 è in grado di innescare un’ulteriore risposta immunologica attraverso l’attivazione delle cellule T (memoria dei linfociti T helper CD4+) conferendo potenzialmente ai soggetti infetti una protezione più lunga contro il coronavirus che va oltre i livelli rilevabili di anticorpi. In conclusione sulla base dei risultati su 75 pazienti, la polmonite interstiziale correlata a COVID che presenta caratteristiche cliniche lievi o moderate (che non richiede terapia intensiva ma solo ricovero ordinario con somministrazione di ossigeno e trattamenti farmacologici) potrebbe comportare sequele a medio termine ancora rilevabili alla tomografia computerizzata polmonare dopo 3 mesi dal primo ricovero ospedaliero. I livelli basali di IL-6 potrebbero essere proposti come predittori di sequele a medio/lungo termine rilevabili all’imaging almeno dopo 3 mesi. Gli individui infettati da SARS-COV2 che sviluppano polmonite interstiziale mostrano livelli iniziali di IgG, che di solito sono superiori a quelli di IgM, in diminuzione significativa ma ancora presenti dopo 3 e 6 mesi. Occasionalmente, è possibile rilevare nuovamente aumenti dei livelli di IgM in presenza di bassi livelli di IgG e test PCR ELISA negativi per l’RNA del SARS-COV2. Gli scienziati sperano che con l’identificazione da parte del team dei livelli basali di IL-6 potrebbero essere proposti come predittori di sequele radiologiche a medio/lungo termine dopo polmonite interstiziale correlata a COVID per far partire la ricerca su un trattamento. Lo studio, tutto Made in Salento, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, è stato pubblicato sull’importante rivista scientifica statunitense PLOS ONE.

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