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Bracconaggio dei datteri di mare e distruzione dell’ambiente costiero

Sono sufficienti i controlli e le pene?

È solo di qualche giorno fa il video divenuto virale di un bagnante che sulla riva di Castellammare di Stabia, armato di martello, spacca un grosso masso alla ricerca di uno dei più prelibati e ricercati, ma anche vietatissimi, molluschi marini: il dattero di mare. Il nome comune della Lithophaga lithophaga, del mollusco bivalve della famiglia Mytilidae, ossia un parente delle più note cozze, ci fa ricordare la sua somiglianza al frutto della palma, ma anche la sua squisitezza che ne fa uno degli alimenti proibiti ancor più ricercati. Sì, proibito, perché è bene ricordare che il suo consumo, la detenzione, il commercio e la pesca sono vietati in tutti gli stati dell’Unione europea ai sensi dell’art. 8 del Regolamento (CE) 1967/2006. In Italia, già il DM 16 ottobre 1998 vietava tutte queste attività e il preambolo della norma ne spiega sinteticamente le ragioni: “… Considerato che gli istituti scientifici incaricati di effettuare studi in materia hanno evidenziato che le attività di pesca della L. lithophaga e del Pholas dactylus (dattero bianco) provoca alterazione ai fondali rocciosi con distruzione di biocenosi;”. In effetti, come ricorda Wikipedia, queste specie, s’insediano all’interno di rocce calcaree o conchiglie più grosse corrodendole mediante delle secrezioni acide che secerne da apposite ghiandole con una crescita estremamente lenta, tanto che per raggiungere la lunghezza di 5 cm, sono necessari dai 15 ai 35 anni. Per essere pescate, è necessario, infatti, un’attività di estrazione che avviene con martelli, picconi, scalpelli, persino martelli pneumatici e, addirittura, esplosivi. Tutte operazioni che comportano una distruzione del fondale marino da parte di soggetti senza troppi scrupoli che muniti di respiratori contribuiscono alla desertificazione delle nostre coste con danni che possono diventare permanenti. Ad attirare i bracconieri sono i prezzi esorbitanti del mercato nero del dattero di mare che può variare dai 70 fino a 200 euro al chilo. Tenuto conto che in determinate aree se ne trovano ancora buone quantità e che in un solo giorno si può arrivare a “cavare” fino 10, ma anche più chili, si possono immaginare i lati compensi in quasi tutte le condizioni del mare anche perché muniti dell’attrezzatura giusta si “lavora” al di sotto del pelo dell’acqua e a profondità sempre più considerevoli per recuperare questi “frutti di mare”. Probabilmente le sanzioni previste per coloro che compiono queste attività illegali e per i commercianti e ristoratori che ancora si permettono di offrire ai consumatori datteri di mare non costituiscono dei deterrenti tali da stoppare definitivamente quest’attività, che a detta degli esperti continua imperterrita un po’ dovunque nelle aree costiere del Belpaese ma che incontra ancora dei veri e propri “hotspot” nelle zone marine rocciose di Campania e Puglia particolarmente adatte alla crescita e sviluppo del mollusco. Così come i controlli sia nel mare che presso i dettaglianti appaiono ancora insufficienti per preservare totalmente l’habitat costiero da queste prassi illecite. È bene ricordare, infatti, rileva Giovanni D’Agata presidente dello “Sportello dei Diritti”, il sequestro del pescato e dell’attrezzatura utilizzata, un’ammenda dai 2.000€ fino a i 12.000€ e dai 2 mesi fino ai 2 anni di carcere.

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