16 Mar 2021
La prossima pandemia riguarderà le malattie neuro-degenerative
Nel 2050 in Europa si prevedono quasi 14 milioni di pazienti
Ecco le nuove strategie terapeutiche che cambieranno l’approccio della cura
nei prossimi anni. Ma l’Italia non è pronta
Sarà una nuova strategia terapeutica a cambiare lo scenario in neurologia: si tratta di nuovi farmaci che potrebbero essere disponibili già nei prossimi anni, ma l’Italia non sarebbe ancora pronta ad accogliere questa grande rivoluzione, a causa di un inadeguato numero di neurologi, geriatri, neuropsicologi, di pet e poi non tutti i centri possono fare l’esame del liquor cerebrospinale.
Quella che prevedono i neurologi sarà una vera e propria pandemia che interesserà nei prossimi
decenni le patologie neurodegenerative. Negli Stati Uniti come in Europa si assisterà ad una
triplicazione dei casi di malattia di malattia di Alzheimer, quasi 14 milioni nel 2050, e ancora di
più in quei paesi emergenti dove l’aspettativa di vita sta rapidamente crescendo.
Mentre per altre terapie contro tumori, malattie cardiache, ictus o l’Hiv sono state trovate terapie
che hanno drasticamente ridotto la mortalità, per quanto riguarda l’Alzheimer la mortalità è in
continua crescita perché i farmaci disponibili attualmente non vanno ad incidere o a bloccare
l’evoluzione delle patologie. Per le patologie neurodegenerative in generale non si sono trovate
terapie adeguate perché alla base c’è una morte progressiva di cellule.
Quale sarà il nuovo scenario in Neurologia e quale sarà l’impatto dei nuovi farmaci sulla salute
delle persone e sui sistemi sanitari è stato il tema affrontato nel webinar intitolato
“‘TWENTY/TWENTY-ONE. L’INNOVAZIONE DIROMPENTE NELL’ANNO 2021” organizzato da
Motore Sanità e con il contributo incondizionato di SHIONOGI e IT-MeD.
Per la malattia di Alzheimer l’ultimo ventennio ha visto una grossa mole di scoperte in ambito
neurobiologico che hanno dimostrato che alla base della malattia c’è l’accumulo di una proteina
chiamata betamiloide che si forma da una proteina più grossa che tende a cumularsi
progressivamente nel cervello, fino a dare quel quadro già descritto nel secolo scorso di Alzheimer
“placche senili”. Questa proteina a sua volta porta ad alterazione di altre proteine. Le ricerche
degli ultimi anni hanno inoltre dimostrato che questi accumuli si verificano anche vent’anni prima
dall’esordio della malattia.
“In particolare nel quadro intermedio di declino cognitivo lieve (MCI), che precede la demenza e in
cui si evidenziano i primi disturbi di memoria neuropsicologici, grazie ai biomarcatori potremmo
dimostrare la patologia nel cervello e quindi intervenire con l’aiuto di nuovi farmaci che bloccano
l’accumulo di beta-amiloide, oppure con anticorpi monoclonali (vaccinazione) che rimuovono
questa proteina dal cervello, oppure, a cascata, con altre molecole che agiscono sulla Tau e su altri
meccanismi innescati dall’accumulo di amiloide – spiega Carlo Ferrarese, Direttore Centro di
Neuroscienze di Milano, Università di Milano Bicocca e Direttore Clinica Neurologica, Ospedale
San Gerardo di Monza -. Ci sono molti studi che sono arrivati in fase tre e che si sono anche
conclusi. Potremmo anche prevedere che il prossimo anno questi farmaci possano essere
disponibili per quei pazienti in fase preliminare, non già dementi”.
È stato calcolato l’impatto sui sistemi sanitari di queste nuove terapie biologiche che potrebbero
essere disponibili nei prossimi anni. “Lo studio condotto dall’agenzia americana Rand Corporation,
che ha calcolato l’impatto negli Stati Uniti e nei paesi europei, ha dimostrato che in Italia su 20,6
milioni di persone con età superiore ai 55 anni nel 2019, 16,4 milioni potrebbero richiedere uno
screening presso uno studio medico richiedendo quei test che possono prevedere il rischio di
demenza; dei 2,9 milioni che risultano positivi allo screening per MCI, 1,4 milioni potrebbero
cercare uno specialista per una valutazione, 1,3 milioni potrebbero essere indirizzati per il test del
biomarker, 0,6 milioni potrebbero risultare positivi ai biomarker e tornare dallo specialista per
conoscere il trattamento, 0,5 milioni potrebbero essere raccomandati per la terapia infusionale”.
Se l’Italia sarà pronta ad accogliere queste terapie è un grande punto interrogativo.
“Non siamo ancora pronti perché non abbiamo un adeguato numero di neurologi, geriatri,
neuropsicologi, non ci sono pet a sufficienza, non tutti i centri possono fare il liquor
cerebrospinale – ha rimarcato il Dottor Ferrarese -. Proprio per queste previsioni abbastanza
catastrofiche, l’Aifa ha finanziato, circa due anni fa, lo studio Interceptor che ha già concluso
l’arruolamento di 400 pazienti con un quadro di declino cognitivo lieve per studiarli nell’arco di tre
anni con un insieme di biomarcatori per poter predire quali sono i soggetti più candidabili a queste
terapie quando saranno disponibili. L’altra strategia riguarda l’investimento che si sta facendo in
sanità a causa del Covid, che può aiutare a sostenere il progetto di mettere in rete i CDCD affinché
siano in grado di affrontare la grande sfida delle nuove terapie”